Onorevoli Colleghi! - La presente proposta di legge riproduce, con qualche limitato aggiornamento, il testo del disegno di legge già presentato al Senato della Repubblica nella scorsa legislatura dai senatori Dato, Levi Montalcini, Amato e altri (atto Senato n. 2778). L'esigenza di un intervento legislativo urgente per promuovere una più ampia partecipazione delle donne alla vita economica e politico-istituzionale del Paese era venuta da due fattori concorrenti: la necessità di adeguare il nostro ordinamento agli obiettivi di innalzamento del tasso di occupazione femminile fissati dal Consiglio europeo di Lisbona per l'anno 2010 e, per altro verso, l'urgenza di dare concreta attuazione all'articolo 51 della Costituzione, come modificato con la legge costituzionale n. 1 del 2003, in materia di pari opportunità delle donne e degli uomini nell'accesso ai pubblici uffici e alle cariche elettive.

 

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      A distanza di qualche anno, purtroppo, entrambe quelle istanze non sono state realizzate e conservano, pertanto, inalterata la loro attualità.
      I ritardi e l'arretramento che l'Italia registra sul fronte della partecipazione al lavoro delle donne rimangono infatti gravissimi. A dimostrarlo è, in primo luogo, un tasso di occupazione femminile tra i più bassi dell'Unione europea, pari ad appena il 41,8 per cento nel 2005: un dato lontanissimo dall'obiettivo del 60 per cento fissato per il 2010 dalla cosiddetta «Agenda di Lisbona», a sua volta direttamente correlato al minimo ricorso delle famiglie italiane ai cosiddetti «aiuti formali» (asili, servizi di assistenza, eccetera) a fronte di una prevalenza degli «aiuti informali».
      Oggi, in Italia, il principale servizio di cura all'infanzia è costituito dai nonni. Secondo il rapporto ISTAT 2003, sei bambini su dieci tra 0 e 3 anni di età sono affidati ai nonni quando la madre lavora e solo due su dieci frequentano un asilo nido pubblico o privato. Questo dato medio, peraltro, sconta una forte differenziazione territoriale, nascondendo la drammatica condizione dei servizi per l'infanzia nel Mezzogiorno. I bambini che frequentano un nido pubblico sono solo il 6 per cento nel Mezzogiorno, a fronte del 15 per cento al Nord e del 13 per cento al Centro.
      A fronte di questo quadro desolante, appare di tutta evidenza l'urgenza di nuove politiche integrate di promozione tout court del lavoro femminile, di incentivazione al rientro in attività dopo la maternità e i periodi di cura familiare, nonché di estensione e di riqualificazione dei servizi all'infanzia.
      Quella proposta di legge, oggi reiterata, aveva assunto quale chiave di ispirazione e traguardo quantitativo di riferimento i contenuti della cosiddetta «Agenda di Lisbona», il documento adottato a conclusione del Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo del 2000, nell'ambito del quale si era tenuta una sessione straordinaria orientata a concordare un nuovo obiettivo strategico per l'Unione: diventare in un decennio «l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo», in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale.

      La cosiddetta «Conferenza di Lisbona» ha dunque posto le basi per la realizzazione di un passaggio cruciale nella crescita e nella maturazione delle istituzioni comunitarie: l'individuazione di obiettivi sociali e di crescita condivisi, sui quali edificare un rinnovato e ampliato concetto di cittadinanza europea.
      Tra le modalità di azione concordate in quella sede era indicata anche la modernizzazione del modello sociale europeo, da realizzare - nell'ambito di un nuovo metodo di coordinamento aperto a tutti i livelli - attraverso l'investimento nelle persone e la lotta all'esclusione sociale.
      In questo contesto, una parte integrante del programma strategico di Lisbona era dedicata a un tema che vede il nostro Paese in una posizione di eccezionale ritardo rispetto ai partner comunitari: la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
      A questo proposito, il punto 30 del documento conclusivo approvato a Lisbona recita testualmente: «Il Consiglio europeo ritiene che l'obiettivo generale di queste misure debba consistere, in base alle statistiche disponibili, nell'accrescere il tasso di occupazione dall'attuale media del 61 per cento a una percentuale che si avvicini il più possibile al 70 per cento entro il 2010 e nell'aumentare il numero delle donne occupate dall'attuale media del 51 per cento a una media superiore al 60 per cento entro il 2010. Tenendo presenti le diverse situazioni iniziali, gli Stati membri dovrebbero prevedere di fissare obiettivi nazionali per un aumento del tasso di occupazione. Attraverso l'ampliamento della forza lavoro, sarà così rafforzata la sostenibilità dei sistemi di protezione sociale».
      La Conferenza ha dunque fissato un criterio fondamentale per l'armonizzazione dei mercati del lavoro europei, che vede l'Italia in una posizione di forte svantaggio soprattutto sul fronte della partecipazione femminile, dovendo recuperare
 

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su questo terreno un gap di eccezionale rilevanza.
      Il dato più significativo riguarda i tassi di occupazione femminile in base al livello di istruzione.
      Tre aspetti di forte differenziazione rispetto alle medie degli altri Paesi europei emergono dall'analisi di tale dato: 1) solo il 27 per cento delle donne italiane, in età compresa tra i 25 e i 64 anni e in possesso di licenzia media inferiore è attualmente occupato; 2) il tasso di occupazione femminile aumenta all'aumentare del livello di istruzione, ma tra i primi due livelli di istruzione l'Italia è il Paese che mostra il divario occupazionale più ampio, con un gap di trenta punti percentuali; 3) il tasso di occupazione delle donne laureate è abbastanza omogeneo a quello degli altri Paesi comunitari, attestandosi sopra il 70 per cento, ma i tassi di occupazione femminile per tutti i livelli di istruzione risultano invece largamente inferiori all'attuale media comunitaria e - a maggior ragione - molto distanti dall'obiettivo strategico di Lisbona. Quest'ultimo risultato evidenzia, in particolare, la modesta percentuale di lavoratrici tra le donne in possesso di un titolo di istruzione inferiore, segnalando anche l'esigenza di specifiche e socialmente mirate politiche culturali.
      Le donne italiane, dunque, studiano come e più degli uomini, eppure non riescono a partecipare alla vita economica e produttiva del Paese in misura corrispondente alle loro capacità e potenzialità.
      La spiegazione di questa «anomalia italiana» si rintraccia negli stessi dati ISTAT, che evidenziano come la situazione familiare condizioni il tasso di partecipazione femminile al lavoro in misura assolutamente determinante: nella fascia di età tra i 35 e i 44 anni le donne con figli che lavorano sono poco più del 50 per cento, contro l'87 per cento delle donne senza figli.
      Il lavoro femminile rappresenta dunque un enorme giacimento di risorse economiche, culturali e civili che l'Italia non riesce ad utilizzare, ponendosi al crocevia delle sfide poste per un verso dall'integrazione europea e per altro verso dalle esigenze di equità e di compatibilità del nostro sistema di protezione sociale.
      Non si può non rilevare, infatti, come la questione dell'occupazione femminile si ponga oggi per il nostro Paese con un accento del tutto particolare, in quanto direttamente connessa al problema della sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale. Anche nel recente dibattito sulla riforma del sistema previdenziale è mancata del tutto una seria riflessione sull'unico strumento che potrebbe garantire un riequilibrio della spesa pensionistica senza compromessi per i diritti acquisiti dei lavoratori, ma semmai con l'espansione e la piena affermazione del diritto soggettivo al lavoro: l'incremento della partecipazione lavorativa delle donne, almeno fino ai livelli medi dell'Unione europea.
      In questo senso, l'obiettivo fissato dalla Conferenza di Lisbona può e deve costituire uno stimolo e uno sprone per il nostro Paese, suggerendo al legislatore un «pacchetto» di interventi urgenti per un rapido ed efficace recupero del deficit di partecipazione femminile al mercato del lavoro.
      Questo intervento urgente, d'altronde, non può prescindere da un altro aspetto cruciale per la vita civile e democratica di una società matura: la partecipazione delle donne agli organismi di rappresentanza democratica e alle cariche elettive. Anche in questo caso - e con proporzioni persino più allarmanti che per la partecipazione delle donne al lavoro - si deve rilevare un primato negativo dell'Italia, che impone l'urgente adozione di efficaci e moderne misure di sostegno, anche nella forma di un rinnovato modello di azioni positive.
      La presente proposta di legge intende incidere su ciascuno di questi fronti di «deficit partecipativo» delle donne, secondo le finalità di cui all'articolo 1, attraverso un'azione a più livelli che si articola nelle seguenti tipologie di intervento:

          a) il sostegno alla partecipazione al lavoro delle donne (capo I);

          b) la promozione dell'imprenditoria e dell'imprenditorialità femminili (capo II);

 

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          c) il sostegno al reddito delle madri lavoratrici, nonché interventi in materia di politiche per la famiglia (capo III);

          d) l'attuazione dell'articolo 51 della Costituzione, in materia di pari opportunità nell'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive (capo IV).

      Il capo I, dedicato alle norme a sostegno della partecipazione al lavoro delle donne, reca in apertura una misura destinata a incidere sul primo ordine di difficoltà incontrato dalle donne nell'accesso al mercato del lavoro: l'elemento anagrafico. A parità di formazione e di qualificazione, le giovani donne scontano una vistosa penalizzazione nell'accesso al lavoro a tempo indeterminato, cui corrisponde una prevalente utilizzazione delle stesse nell'ambito di forme parasubordinate di prestazione.
      A tale fine, l'articolo 2 introduce, per il periodo 2007-2010, uno specifico incentivo fiscale all'assunzione di lavoratrici giovani, nella forma di un credito d'imposta pari a 500 euro per ciascuna nuova assunzione che incrementi il numero dei dipendenti a tempo indeterminato.
      L'incentivo è riconosciuto ai datori di lavoro (con l'esclusione delle pubbliche amministrazioni) che assumono lavoratrici fino a 32 anni di età, che non abbiano svolto attività di lavoro dipendente a tempo indeterminato da almeno 24 mesi e che siano residenti in un'area geografica in cui il tasso di occupazione femminile sia inferiore almeno del 10 per cento rispetto a quello maschile, ovvero in cui il tasso di disoccupazione femminile superi del 5 per cento quello maschile.
      L'agevolazione è modellata sull'incentivo per l'occupazione di cui all'articolo 7 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria per il 2001) che nel corso della XIV legislatura è stato prima «congelato» e quindi ridimensionato, fino a svuotarne progressivamente l'effettività sia con una riduzione degli importi ammessi al credito d'imposta, sia attraverso l'eliminazione del carattere di automaticità dell'incentivo.
      Un'agevolazione fiscale riconosciuta direttamente al nucleo familiare di appartenenza della lavoratrice è invece prevista dall'articolo 3 della presente proposta di legge, a titolo di incentivo alla ripresa dell'attività lavorativa dopo la maternità.
      Con riferimento ai figli nati dopo il 31 dicembre 2006 da madri residenti che, inoccupate o disoccupate alla data del parto, intraprendano una nuova attività lavorativa, anche in forma autonoma, entro tre anni dalla stessa data, si prevede un significativo incremento della deduzione per carichi familiari già prevista dal testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 [articolo 12, comma 1, lettera b)], per i nuclei familiari in particolari condizioni economiche. Fermi restando i requisiti di reddito già previsti per l'accesso alla deduzione per carichi familiari, la norma ne indica l'importo in 15.000 euro, per i cinque anni successivi all'avvio o alla ripresa dell'attività lavorativa.
      In caso di incapienza, la quota della deduzione non goduta è riconosciuta sotto forma di assegno alla lavoratrice.
      Inoltre, nel quadro della generale revisione degli istituti di sostegno al reddito delle famiglie prevista dalla delega di cui all'articolo 11 della presente proposta di legge, si prevede la possibilità che lo stesso importo riconosciuto come deduzione d'imposta possa essere in alternativa accreditato, sotto forma di contribuzione diretta, sul «conto individuale del neonato» intestato al figlio per il quale si è avuto accesso al beneficio.
      Al fine di incentivare l'assunzione di persone che avviano o riprendono l'attività lavorativa dopo periodi dedicati alla cura della famiglia, l'articolo 4 prevede, per i datori di lavoro che assumano tali soggetti con contratti a tempo indeterminato, l'integrale fiscalizzazione degli oneri contributivi per un periodo di tre anni dalla data dell'assunzione.
      Una novella della disciplina vigente del lavoro part-time, finalizzata a promuovere il ricorso su base volontaria a tale modalità di prestazione, è invece prevista all'articolo 5. Le modifiche proposte al decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61,

 

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come da ultimo modificato dal decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, sono orientate in primo luogo a riequilibrare, in senso più favorevole al lavoratore, la disciplina delle clausole elastiche che possono essere previste dai contratti collettivi in ordine alla collocazione temporale della prestazione. In secondo luogo, e per la medesima finalità, si è modificata la disciplina per la denuncia del patto, da parte del lavoratore, per esigenze di salute personale o di carattere familiare, connesse alla cura di figli minori o di familiari disabili.
      In chiave esclusivamente promozionale è la misura di cui all'articolo 6, che novella la legge 8 marzo 2000, n. 53, in materia di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, prevedendo nuove forme di incentivo alla flessibilità oraria e al part-time. In particolare, si prevede che una quota non inferiore a 40 milioni di euro del Fondo per l'occupazione sia annualmente destinata all'erogazione di contributi in favore di aziende che applicano accordi contrattuali che prevedono:

          a) la trasformazione, reversibile e su base volontaria, del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, su richiesta delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, anche adottivi o affidatari, con figli fino ad otto anni di età ovvero fino a dodici anni in caso di affidamento o di adozione;

          b) l'adozione di azioni positive per la flessibilità dell'orario di lavoro, orientate a consentire alla lavoratrice madre e al lavoratore padre, anche quando uno dei due sia lavoratore autonomo, ovvero quando abbiano in affidamento o in adozione un minore, di usufruire di forme di flessibilità degli orari e dell'organizzazione del lavoro, anche attraverso il ricorso su base volontaria al telelavoro e al lavoro a domicilio;

          c) la realizzazione di programmi di formazione per il reinserimento delle lavoratrici e dei lavoratori dipendenti dopo i periodi di congedo parentale, nonché di progetti che consentano la sostituzione delle lavoratrici e dei lavoratori autonomi che beneficino del periodo di astensione obbligatoria o dei congedi parentali, con altra lavoratrice o lavoratore autonomo.

      L'altro fronte di riforma sul quale intende incidere la presente proposta di legge è costituito dal potenziamento dell'istituto del congedo parentale. A tale fine, l'articolo 7 novella il testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, introducendo una nuova disciplina del trattamento economico e normativo dei congedi parentali.
      In particolare, si prevede che per i periodi di congedo parentale, alle lavoratrici e ai lavoratori che vi accedono avendo un reddito familiare inferiore a 20 mila euro annui, secondo l'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), l'indennità dovuta sia elevata fino al 70 per cento della retribuzione, rispetto all'attuale 30 per cento oggi corrisposto indifferentemente per tutti i livelli di retribuzione.
      Inoltre, si porta a nove mesi il periodo massimo complessivo di congedo che i due genitori possono richiedere per lo stesso figlio.
      Un'innovazione assoluta rispetto all'ordinamento, e di grande rilevanza civile, è costituita dalla disciplina di cui all'articolo 8, orientata a riconoscere alla lavoratrici parasubordinate - trasformate in lavoratrici a progetto dalla legge 14 febbraio 2003, n. 30 - un pieno diritto alla tutela della maternità, della malattia e dell'infortunio, oggi gravemente conculcato. A questo scopo, si propone la sostituzione dell'articolo 66 del decreto legislativo n. 276 del 2003 con una nuova disciplina per la tutela della gravidanza, della malattia e dell'infortunio nei lavori a progetto.
      In particolare, si prevede che la gravidanza, la malattia e l'infortunio della collaboratrice e del collaboratore a progetto non possano in nessun caso comportare l'anticipata conclusione del rapporto contrattuale: in caso di malattia e di infortunio

 

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comportanti un'astensione dall'attività lavorativa superiore a dieci giorni, la durata del contratto è prorogata per un periodo corrispondente, sebbene non oltre un sesto della durata del contratto stesso, quando essa sia determinata, ovvero non oltre trenta giorni per i contratti di durata determinabile (salva più favorevole disposizione del contratto individuale); in caso di gravidanza, invece, la durata del contratto, quando essa sia determinata, è prorogata per un periodo di nove mesi.
      Infine, alle collaboratrici a progetto è estesa - sotto tutti gli altri profili, economici e normativi - la disciplina in materia di congedo per maternità oggi applicabile alla lavoratrici subordinate.
      Agli interventi per la promozione dell'imprenditoria e dell'autoimprenditorialità femminile è dedicato il capo II della proposta di legge.
      In particolare, l'articolo 9 reca, per un verso, il rifinanziamento delle misure vigenti a sostegno dell'imprenditoria e dell'autoimprenditorialità femminili e, per altro verso, incide sulla disciplina del finanziamento delle azioni positive realizzate mediante la formazione professionale, di cui all'articolo 3 della legge 10 aprile 1991, n. 125.
      Inoltre, lo stesso articolo prevede che, nell'esercizio della potestà legislativa concorrente ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, in materia di sostegno all'innovazione per i settori produttivi, le regioni attuino, per le finalità coerenti con la legge 25 febbraio 1992, n. 215, in accordo con le associazioni di categoria, programmi per la formazione continua e per la promozione dell'autoimpiego femminile, e concorrano alla realizzazione di piani e di progetti aziendali, territoriali, settoriali o individuali finalizzati alla formazione delle lavoratrici autonome.
      Al fine di coordinare e razionalizzare l'implementazione di tali misure di sostegno, l'articolo 10 prevede l'istituzione, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, di un apposito Osservatorio per la formazione continua e la valorizzazione della cultura d'impresa delle lavoratrici autonome. All'Osservatorio sono attribuite le seguenti funzioni:

          a) l'elaborazione di proposte di indirizzo e di linee-guida per l'implementazione di programmi di formazione professionale continua a favore delle donne che svolgono o intendano svolgere attività di lavoro autonomo;

          b) la promozione di attività di studio e di ricerca e di campagne informative sull'imprenditorialità femminile;

          c) il monitoraggio degli interventi legislativi e dei programmi governativi, locali e comunitari, rilevanti per la promozione delle pari opportunità in materia di imprenditoria, anche ai fini della misurazione degli effetti complessivi, dal punto di vista occupazionale, economico e della diffusione della cultura d'impresa;

          d) l'adozione di programmi specifici aventi il fine di facilitare la diffusione sul territorio della conoscenza delle risorse disponibili e delle modalità di accesso agli strumenti nazionali e ai fondi comunitari, anche mediante l'organizzazione sul territorio di strutture specifiche per l'informazione, la promozione e lo sviluppo di nuove iniziative imprenditoriali femminili.

      Le proposte d'indirizzo dell'Osservatorio sono inoltre trasmesse alle regioni ed alle province autonome territorialmente interessate affinché ne possano tenere conto nell'esercizio della potestà legislativa concorrente ed esclusiva ai sensi dell'articolo 117, terzo comma, della Costituzione, in materia, rispettivamente, di sostegno all'innovazione per i settori produttivi e di formazione professionale.
      Agli interventi in materia di politiche per la famiglia, sempre in chiave di incentivazione e di sostegno alla partecipazione al lavoro delle donne, è dedicato il capo III della presente proposta di legge.
      L'articolo 11 reca un'articolata disciplina di delega al Governo ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, disposizioni finalizzate a potenziare e razionalizzare gli istituti di

 

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sostegno al reddito delle famiglie con figli, anche attraverso l'istituzione di strumenti di risparmio agevolato intesi a promuovere l'autonomia dei giovani.
      La delega è esercitata sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) al fine di limitare l'insorgenza di situazioni di incapienza nell'accesso alle agevolazioni fiscali per i carichi familiari, prevedere una ridefinizione della disciplina delle deduzioni dall'imposta sui redditi, orientata a ridurre progressivamente il ricorso a tale istituto e a potenziare corrispondentemente il ricorso alle forme di sostegno diretto;

          b) sulla base di una complessiva ricognizione di tutti gli istituti e le forme di sostegno diretto e indiretto al reddito, a vario titolo riconosciuti ai nuclei familiari, con particolare riguardo alla composizione e all'estensione della platea dei beneficiari, alle condizioni di accesso a ciascun istituto e ai rispettivi costi, prevedere la progressiva sostituzione degli stessi con forme di sostegno diretto al reddito delle famiglie attivabili sulla base di nuovi e omogenei criteri di assegnazione, che tengano conto della condizione reddituale, dell'ampiezza e della composizione del nucleo familiare;

          c) per la medesima finalità, disporre una complessiva revisione della disciplina dell'indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), orientata a massimizzare l'efficienza, l'equità e la trasparenza nella valutazione delle condizioni sociali e reddituali rilevanti ai fini del riconoscimento dell'assegno per la famiglia, rendendo pienamente accessibile e agevole anche l'autovalutazione di tali condizioni da parte dei soggetti interessati;

          d) nell'ambito della revisione della disciplina dell'ISEE, prevedere meccanismi di adeguamento automatico delle tabelle di equivalenza, orientati a recuperare la perdita del potere di acquisto delle famiglie;

          e) prevedere delle adeguate forme di collegamento tra l'accesso all'assegno per la famiglia, da parte di nuclei familiari con figli minori, e la garanzia di ottemperanza alle disposizioni vigenti in materia di obbligo scolastico e di lavoro minorile;

          f) prevedere che a ciascun nuovo nato sia riconosciuta la titolarità di un «conto personale del neonato», istituito presso l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e finalizzato al sostegno economico per la cura, l'assistenza e la formazione del nuovo nato, nonché alla promozione della sua autonomia;

          g) prevedere che il «conto personale del neonato» possa essere alimentato, fino al compimento del venticinquesimo anno di età del titolare, attraverso le seguenti fonti di finanziamento segnalate con distinta evidenza contabile in sede di emissione del relativo estratto conto:

              1) l'accreditamento degli assegni familiari e degli altri contributi pubblici riconosciuti alla famiglia a titolo di sostegno al reddito, in relazione alle esigenze di cura, assistenza e formazione del minore titolare del conto;

              2) l'accreditamento delle borse o degli assegni di studio riconosciuti al titolare del conto da istituzioni pubbliche e private, nonché dei contributi pubblici a vario titolo erogati per la tutela del diritto allo studio;

              3) i versamenti, occasionali o periodici, da parte di familiari, tutori o affidatari, nonché di altri soggetti privati a tale fine espressamente autorizzati dagli esercenti la potestà sul minore;

              4) la contribuzione statale o regionale integrativa, in relazione a particolari condizioni sociali ed economiche del titolare del conto, ovvero per specifiche finalità di impiego del contributo;

              5) l'accreditamento degli importi erogati dallo Stato a titolo di prestito a condizioni agevolate, rimborsabile con rateazione a lungo termine, per specifiche finalità di istruzione o di formazione professionale del titolare del conto;

          h) prevedere che agli importi versati sul conto si applichi un tasso annuo di rivalutazione, annualmente individuato

 

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con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, almeno pari al rendimento annuo dei titoli di credito a medio-lungo termine emessi dal Tesoro;

          i) prevedere che possano avere accesso al conto:

              1) fino al raggiungimento della maggiore età del titolare, i genitori, tutori o affidatari del minore; in tale caso i prelievi eccedenti la quota di risorse derivante da contribuzione pubblica sono condizionati a documentate esigenze di concorso alle spese di sostentamento, cura, assistenza, istruzione e formazione del titolare del conto;

              2) il titolare del conto, a decorrere dal raggiungimento della maggiore età e fino al compimento del venticinquesimo anno di età, per documentate esigenze di istruzione o di formazione professionale, ovvero per l'avvio di attività professionali e imprenditoriali.

      Nuove e specifiche disposizioni in materia di asili nido sono contenute all'articolo 12 della proposta di legge. In particolare si prevede che, a decorrere dall'anno 2007, le spese di partecipazione, sostenute dai genitori, alla gestione dei micro-nidi e degli asili nido territoriali siano deducibili dal reddito complessivo ai fini dell'imposta sui redditi delle persone fisiche, per un importo non superiore a 2.000 euro per ogni figlio che fruisce di tali strutture.
      Inoltre, al fine di promuovere e sostenere la realizzazione su tutto il territorio nazionale di almeno 3.000 nuovi asili nido entro l'anno 2009, è istituito presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali un apposito «Fondo nazionale per gli asili nido», finalizzato al cofinanziamento degli investimenti promossi dalle amministrazioni locali per la costruzione ovvero per la riqualificazione di strutture destinate ad asili nido.
      Infine, il capo IV della presente proposta di legge è dedicato alle misure per l'attuazione dell'articolo 51 della Costituzione, in materia di pari opportunità nell'accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. Tale disciplina nasce dall'esigenza di un rinnovamento delle istituzioni che si realizzi non solo nel rispetto dei princìpi democratici, ma anche con l'obiettivo di uno Stato più aperto, più vicino ai cittadini, capace di corrispondere meglio ai bisogni di una società in trasformazione, più esigente e ricca di elementi di partecipazione democratica.
      A sessanta anni dal riconoscimento alle donne italiane del diritto di voto, attivo e passivo, si verifica un crescente paradosso: si moltiplicano la qualità e la quantità delle donne in tutti i campi sociali, culturali e professionali, seppure con le difficoltà legate soprattutto a una persistente delega nei loro confronti del lavoro di cura e dei compiti familiari, nonché a una permanente resistenza nel riconoscere loro pari condizioni di accesso ai ruoli dirigenziali. Questo impetuoso avanzamento, che qualcuno ha definito la rivoluzione più lunga del secolo, non trova che un marginale riconoscimento - nel nostro Paese, ma anche in altri Stati europei - nell'accesso delle donne alle assemblee elettive e ai centri decisionali, luoghi deputati a esprimere la garanzia effettiva del diritto di cittadinanza sociale e politica.

      Eppure il principio di uguaglianza dei cittadini e della loro pari dignità sociale è costituzionalizzato fin dal 1948 nell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, e non soltanto come precetto formale bensì come concreta previsione per la Repubblica del dovere di rimuovere gli «ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
      In questo articolo si è radicata e alimentata tutta quella produzione legislativa tesa a configurare condizioni di reali pari opportunità, identificando le situazioni di concreto svantaggio e disuguaglianza di

 

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partenza e di status tra i cittadini e in particolare tra uomini e donne.
      Si pensi alla filosofia che, a decorrere dagli anni '80 - in Italia e in Europa - ha ispirato la legislazione sulle «azioni positive» in campo sociale ed economico, rivolte non solo a rimuovere situazioni di ostacolo o di discriminazione diretta o indiretta, ma a promuovere misure specifiche, anche circoscritte nel tempo e nello spazio, mirate al superamento di condizioni di concreta difficoltà.
      Il Consiglio d'Europa ha adottato fin dal 1991 una raccomandazione affinché l'eguaglianza di trattamento fra uomini e donne in tutti i campi sia iscritta come diritto fondamentale della persona umana a livello nazionale e internazionale e ha moltiplicato le iniziative volte a rafforzare il concetto di democrazia paritaria, che è ormai entrata a pieno titolo anche nei documenti internazionali. La Carta di Roma, sottoscritta da quindici Ministri europei il 18 maggio 1996, ha ribadito gli stessi princìpi. In particolare ha affermato «la necessità di azioni concrete a tutti i livelli per promuovere la partecipazione ugualitaria di donne e uomini ai processi decisionali in tutte le sfere della società».
      In tal senso il primo Governo Prodi emanò una direttiva che dava attuazione al IV Programma d'azione europeo adottato nel 1996 (direttiva del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 1997, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 116 del 21 maggio 1997), che aveva come obiettivo la partecipazione equilibrata di uomini e donne nei luoghi decisionali in applicazione anche del Piano d'azione sottoscritto da 189 Stati alla IV Conferenza mondiale dell'ONU di Pechino sulle donne del 4-15 settembre 1995; Piano d'azione confermato nel Quinto programma d'azione 2001-2005 che ha inserito l'obiettivo della parità tra i sessi in tutte le politiche che esercitano un impatto diretto o indiretto sulla vita di uomini e donne (decisione 2001/51/CE del Consiglio, del 20 dicembre 2000, relativa al programma concernente la strategia comunitaria in materia di parità tra donne e uomini).
      Si tratta di pochi ma significativi riferimenti al quadro internazionale dai quali si evince che il principio universale di uguaglianza e di non discriminazione è «norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta», cui l'Italia deve conformarsi ai sensi dell'articolo 10 della Costituzione (risultandone così integrato e rafforzato l'articolo 3 della stessa Costituzione), e deve essere quindi preoccupazione costante di chi è chiamato a un'ampia riforma istituzionale e degli strumenti di garanzia costituzionale.
      In tale senso, l'approvazione della legge costituzionale 30 maggio 2003, n. 1, di modifica dell'articolo 51 della Costituzione, ha semplicemente completato e reso più esplicito il quadro costituzionale di riferimento, favorendo l'introduzione nell'ordinamento di correttivi che facilitino una presenza equilibrata di donne e di uomini. La sfida, per uomini e per le donne, è quella di inserirsi nei processi politici e decisionali soprattutto in una fase di transizione e di cambiamento come l'attuale: e la via maestra consiste nell'inserimento nel cosiddetto mainstream, cioè nei processi politici in cui coesistono volontà e responsabilità personale. Sappiamo, però, che il ricorso a strumenti e a misure specifici, che in qualche modo debbano surrogare una carenza di consapevolezza politica, è pur sempre una soluzione scarsamente appagante anche per le donne. Ma di fronte all'attuale rischio di «rimozione» del problema della sottorappresentanza delle donne nelle istituzioni, pur a fronte della sua persistenza, è necessario ed urgente un correttivo.

      A tale fine, la presente proposta di legge interviene in ordine alle elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia, della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica, dei consigli regionali, comunali e provinciali (articoli da 14 a 21).
      Per le elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, anzitutto si pone il problema di assicurare una presenza alternata delle donne e degli uomini nelle liste elettorali. Il testo prevede che nell'ambito delle liste recanti il
 

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medesimo contrassegno ogni sesso non sia rappresentato in misura superiore ai due terzi (articolo 15).
      Analoga disposizione è prevista per le elezioni dei consigli comunali e provinciali (articoli 16 e 17).
      Infine, per garantire l'effettività delle suddette disposizioni, è previsto che le liste o le candidature non conformi alla legge, in materia di rappresentanza obbligatoria dei sessi nelle liste elettorali, siano comunque inammissibili. La mancata ottemperanza all'obbligo di alternanza tra candidati di sesso diverso, a partire dalla candidatura capolista, è invece sanzionata con la preclusione all'accesso ai rimborsi elettorali di cui alla legge 3 giugno 1999, n. 157 (articolo 18).
      Misure premiali per i partiti o movimenti politici che sostengono le candidature femminili nelle elezioni politiche, regionali ed europee sono invece previste dall'articolo 19.
      Tale disposizione novella la legge 3 giugno 1999, n. 157, prevedendo una nuova disciplina per l'erogazione di risorse finanziarie allo scopo di accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica.
      Al fine di incentivare e sostenere la partecipazione delle donne agli organi di rappresentanza, una quota pari al 20 per cento dei fondi complessivamente destinati alle spese elettorali per il rinnovo di ciascuno degli organi elettivi europei, nazionali e regionali, è riservata ai partiti o movimenti politici che, nelle relative consultazioni elettorali, abbiano almeno il 30 per cento di donne tra i rispettivi candidati eletti. In caso di mancata attribuzione della quota, le relative risorse finanziarie sono destinate alle finalità di cui alla legge 10 aprile 1991, n. 125, recante azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna.
      Inoltre, ogni partito o movimento politico è tenuto non solo a destinare una quota pari almeno al 10 per cento dei rimborsi ricevuti per ciascuno dei fondi a iniziative volte ad accrescere la partecipazione attiva delle donne alla politica, ma anche a dare conto in forma dettagliata, nell'ambito dei propri bilanci, della tipologia, dell'estensione e del costo di ciascuna iniziativa realizzata per le finalità di promozione della partecipazione politica delle donne.
      Una disciplina premiale specifica è dettata - all'articolo 20 - per i partiti o movimenti politici che sostengono le candidature femminili nelle elezioni provinciali e comunali.
      In particolare, al fine di incentivare e sostenere la partecipazione delle donne agli organi di rappresentanza, una quota pari al 15 per cento del fondo previsto dalla legge 10 aprile 1991, n. 125, è riservata ai partiti e movimenti politici, liste o gruppi di candidati che nelle consultazioni elettorali provinciali e comunali abbiano riportato almeno il 40 per cento di donne tra i rispettivi candidati eletti, a titolo di contributo totale o parziale delle spese sostenute per la campagna elettorale.
      Infine, l'articolo 21 reca nuove norme a tutela della rappresentanza equilibrata di donne e di uomini nelle giunte e negli organi collegiali degli enti locali. Esso prevede che, in attuazione dell'articolo 51 della Costituzione, gli statuti comunali e provinciali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna ai sensi della legge 10 aprile 1991, n. 125, e per promuovere la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende e istituzioni da essi dipendenti. Per tali finalità, gli statuti comunali e provinciali sono tenuti tra l'altro a prevedere modalità di nomina dei componenti della giunta idonee a garantire l'equilibrata rappresentanza di entrambi i sessi. A tale fine, gli statuti devono prevedere che al sesso meno rappresentato nel consiglio comunale o provinciale sia riservata una quota percentuale.
 

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